Cos’è

La Mielofibrosi Primaria è una neoplasia mieloproliferativa cronica caratterizzata da una proliferazione clonale neoplastica della cellula staminale pluripotente della linea mieloide caratterizzata da una iperplasia e atipia dei megacariociti cui si associa una deposizione di tessuto connettivo fibroso a livello midollare responasbile della fibrosi midollare (mielofibrosi) e della conseguente emopoiesi extramidollare. La mielofibrosi può inoltre rappresentare l’evoluzione di una pregressa Policitemia Vera.

 

Diffusione e fattori di rischio

La mielofibrosi è una malattia rara, in Italia si calcola che ci siano da 5 a 15 nuovi casi ogni milione di abitanti, che si traducono in circa 350 nuovi casi all’anno. La malattia non mostra prevalenza di sesso. Nella maggior parte dei casi colpisce pazienti tra i 60 e i 70 anni di età. Nel 15% dei casi può interessare persone con meno di 55 anni. La mielofibrosi è una malattia cronica che può peggiorare più o meno lentamente nell’arco di diversi anni, con modalità variabili a seconda del paziente. In alcuni casi (10-15 su 100) la mielofibrosi può evolvere in una forma leucemica acuta.

 

Patogenesi

Come per tutte le altre neoplasie mieloproliferative, anche per la mielofibrosi non sono attualmente note le cause. Per quanto riguarda la patogenesi della malattia, la deposizione di tessuto connettivo fibroso a livello midollare è dovuta all’espansione policlonale (quindi reattiva) dei fibroblasti midollari come conseguenza della produzione da parte delle cellule neoplastiche di fattori di crescita dei fibroblasti (es. il PDGF o il TGF-beta) e di citochine proinfiammatorie.
Circa il 60% dei casi di mielofibrosi sono caratterizzati dalla presenza della mutazione V617F del gene Janus Kinase-2 (JAK-2), responsabile della proliferazione delle cellule progenitrici prevalentemente dei globuli rossi (eritroidi), ma anche delle piastrine (megacarocitarie) e dei globuli bianchi (granulocitarie). Nel 25-30% dei casi è riscontrabile la mutazione a carico del gene CALR, coinvolto nella morte cellulare programmata e responsabile pertanto di vantaggio proliferativo della cellula progenitrice in presenza della mutazione.  Nel 5-8% dei casi è presente la mutazione a carico del gene MPL (MPL W515K/L). Altre mutazioni a carico di geni responsabili dei meccanismi di regolazione epigenetica (ASXL1, SRSF2, EZH2, TET2, DNMT3A, CBL, IDH1, IDH2), sono rare ma correlate a un decorso clinico più rapido e aggressivo e a un maggiore rischio di evoluzione leucemica.

 

Diagnosi e sintomi

La diagnosi di mielofibrosi è piuttosto complessa e non esiste un unico esame che permette di confermarla. L’esame emocromocitometrico può essere del tutto normale nelle fasi precoci di malattia o evidenziare un aumento delle piastrine. Con il progredire della malattia si può osservare un considerevole calo, o al contrario, un aumento di leucociti e di piastrine, e anche una riduzione di emoglobina (anemia). Nel sangue si può riscontrare un importante incremento della lattato deidrogenasi (LDH). Fondamentale per la diagnosi di mielofibrosi è la biopsia osteomidollare che evidenzia un aumento della cellularità midollare con incremento della proliferazione dei precursori piastrinici (megacariociti) e deposizione di fibre collagene (fibrosi). Ulteriore elemento utile alla diagnosi è la ricerca delle mutazioni dei geni Jak-2, CALR, MPL mediante prelievo di sangue periferico. Una splenomegalia palpabile (aumento delle dimensioni della milza) rientra tra i criteri diagnostici minori insieme a leucocitosi (aumento dei globuli bianchi), anemia e aumento delle LDH. È possibile suddividere la storia naturale della malattia in due fasi: la fase precoce (o pre-fibrotica), nella quale si possono avere segni di proliferazione midollare (es. incremento del valore delle piastrine o dei globuli bianchi) e sono assenti anemia grave e splenomegalia; la fase avanzata (o fibrotica), in cui è presente una diffusa fibrosi midollare fino ad arrivare all’osteosclerosi con emopoiesi extramidollare, anemia grave con fabbisogno trasfusionale, riduzione del numero dei globuli bianchi e delle piastrine, aumento dei livelli sierici di LDH e importante splenomegalia.

L’esordio della mielofibrosi è tipicamente subdolo e la diagnosi può essere casuale: circa il 30% dei pazienti sono infatti assolutamente asintomatici al momento della diagnosi. Nel 60-70% dei pazienti, al contrario, all’esordio della malattia è presente una sintomatologia clinica caratterizzata da: astenia marcata e pallore cutaneo (correlati all’anemia), inappetenza e anoressia, senso di pienezza post-prandiale (correlati alla splenomegalia) o sazietà precoce, febbricola, sudorazioni notturne, dolori ossei diffusi ed emorragie muco-cutanee (correlati alla riduzione della conta piastrinica).
La prognosi della malattia è notevolmente variabile da persona a persona e il tempo di sopravvivenza dalla diagnosi può variare da pochi mesi a diversi anni. L’individuazione di fattori prognostici alla diagnosi è importante per la corretta stratificazione dei pazienti e fondamentale per stabilire il corretto iter terapeutico. La scala prognostica attualmente più utilizzata per la stratificazione prognostica dei pazienti con mielofibrosi alla diagnosi è quella dell’International Prognostic Scoring System (IPSS) in cui occorre valutare la presenza o meno di ciascuno dei seguenti fattori: anemia, età, quota blastica nel sangue periferico, leucocitosi. A seconda del numero di fattori presenti, viene definito il livello di gravità della malattia.
Una percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei pazienti con mielofibrosi va incontro ad una trasformazione leucemica dopo un tempo notevolmente variabile dalla presentazione clinica.

 

Cura

Attualmente non esiste una terapia specifica in grado di alterare il decorso naturale della mielofibrosi. Inoltre, data la variabilità con cui si manifesta la patologia, il percorso terapeutico non è uguale per tutti i pazienti.  Quando i sintomi sono assenti oppure ci sono solo modeste alterazioni dell’emocromo non è necessario assumere alcuna terapia specifica.  I medicinali tradizionali che vengono comunemente utilizzati (ad esempio terapia steroidea, androgeni, eritropoietina o terapia citoriduttiva con idrossiurea) vengono impiegati essenzialmente per il trattamento dei disturbi provocati dall’anemia e dall’ingrossamento della milza, ma sono poco efficaci sui sintomi correlati alla mielofibrosi. La sola strategia curativa ad oggi è rappresentata dal trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche.
Le nuove acquisizioni in campo molecolare che sono state fatte negli ultimi anni e che hanno permesso di comprendere meglio i meccanismi patogenetici alla base di questa malattia, hanno fornito gli strumenti per lo sviluppo di nuovi farmaci potenzialmente in grado di modificarne la storia naturale. Tra i nuovi farmaci sviluppati, di fondamentale importanza sono gli inibitori di JAK-2 (Ruxolitinib), dal 2014 autorizzato in Italia con l’indicazione al trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con mielofibrosi primaria e mielofibrosi post-policitemia vera e post-trombocitemia essenziale nei pazienti a rischio intermedio-alto. Ruxolitinib ha dimostrato di essere in grado di ridurre le dimensioni della milza e di controllare i sintomi della mielofibrosi in maniera più efficace rispetto ai farmaci tradizionali. Inoltre ruxolitinib è il primo farmaco per il quale è stato dimostrato un aumento della sopravvivenza dei malati affetti da mielofibrosi. Sono attualmente in fase di sperimentazione altre molecole, come gli inibitori di Jak-2 di seconda generazione (momelotinib), gli inibitori dell’istone deacetilasi (es. panobinostat), inibitori di mTOR (es. everolimus) e i nuovi farmaci antiangiogenetici (es. pomalidomide).

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